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Alimentazione Vegana - Alimentazione - Francesco Favorito
Francesco Favorito

Alimentazione Vegana

cibo vegano

La scelta alimentare dice molto di noi. Rivela la nostra etica, la nostra sensibilità ecologica e soprattutto il nostro attuale e futuro stato di salute.

La scelta alimentare vegana prevede che vengano esclusi animali (carne, pesce,volatili) ed ogni prodotto di origine animale (uova, latte e derivati, miele) dall’alimentazione. Non voglio intenzionalmente definirla una dieta, termine che spesso inconsciamente associamo a restrizioni e sacrifici alimentari: scopriremo insieme che non c’è traccia di rinuncia in questo regime alimentare che al contrario permette un guadagno in termini di vita per tutti gli esseri viventi, salute per chi lo segue e per il pianeta che ci ospita e riscoperta della varietà e del gusto che il patrimonio vegetale ci offre.

Questa alimentazione fa parte di una filosofia di vita, il veganismo, basata sul rifiuto di ogni forma di sfruttamento degli animali, che si tratti di scopi alimentari, abbigliamento, arredamento, spettacolo sport ecc.

Il termine “vegan” è un neologismo coniato dall’attivista inglese Donald Watson, fondatore nel 1944 con Elsie Shrigley della Vegan Society, nata in seguito al dibattito all’interno del mondo vegetariano sull’esigenza di escludere i latticini dai prodotti ritenuti vegetariani e al rifiuto di questa proposta da parte della Vegetarian Society

Furono i primi lettori di Donald Watson a suggerire un termine più breve per sostituire “vegetariani non consumatori di latticini” (non –dairy vegetarian) e da tutte le proposte che ricevette scelse vegan, formato dalle prime ed ultime lettere della parola vegetarian.

Il veganismo è dettato da principi etici di rispetto della vita animale e si basa su una concezione non-violenta della vita e sul pensiero antispecista che sostiene il riconoscimento della capacità di sentire, esprimere volontà ed allacciare rapporti sociali a tutti gli animali anziché considerarle antropocentricamente prerogative della specie umana. Il veganismo quindi si prefigge lo scopo di non prendere parte allo sfruttamento e all’uccisione sistematica degli animali per l’alimentazione e per ogni altro fine. L’etica vegana non accetta l’idea che l’uomo si arroghi il diritto di disporre della vita degli altri animali come crede, pur riconoscendo che il solo fatto di esistere implica la morte accidentale di altri esseri viventi (solo camminando o percorrendo le strade, ad esempio, causiamo la morte di molti insetti).

Spesso la scelta di seguire un’alimentazione vegana viene considerata estremista ma, a ben guardare, non è altro che una scelta “secondo natura”: studi effettuati su reperti archeologici sostengono che l’uomo nasce frugivoro, lo provano i denti degli ominidi predecessori dell’homo sapiens, che presentano tutti le caratteristiche striature dei mangiatori di frutta.

Il fatto di nutrirsi di sola frutta non causò alcuna menomazione fisica ai nostri antenati che svilupparono un cervello di dimensioni analoghe a quelle attuali tra 4 e 1 milione di anni fa, epoca in cui non si faceva ancora uso della caccia (i primi strumenti da caccia rinvenuti vengono datati tra 1,5 milioni e 600.000 anni fa). Si ritiene inoltre che anche quando i nostri antenati cominciarono a ricorrere a questa pratica lo fecero più per motivi di difesa che come fonte di sostentamento, la caccia rappresentò un avvenimento sporadico che non cambiò la loro natura. Questa teoria concorda con l’osservazione delle grandi scimmie, con le quali condividiamo la famiglia zoologica (Ominidi o scimmie antropomorfe) ed il 95 % del  DNA: hanno tutte una dieta frugivora (eccetto i gorilla di montagna che sono erbivori); non hanno una predisposizione fisica alla caccia alla quale ricorrono solo in caso di difesa o nelle stagioni di siccità per sopperire alla mancanza di frutta; hanno pollice opponibile e unghie (anziché artigli) che rendono agevole la raccolta della frutta;come l’uomo presentanoincisivi ben sviluppati, molari smussati, intestino lungo, saliva e urina alcaline. Ben diversa è l’anatomia dei carnivori che, a dispetto del nome, non consumano solo la carne ma ogni parte dell’animale (ossa, interiora, cervello, ecc): questi sono anatomicamente predisposti al consumo di carne grazie a denti ed artigli taglienti e, a differenza dell’uomo, sono dotati dell’enzima uricasi che produce acido urico e di un intestino molto più corto. L’uomo, per natura, non era predisposto al consumo della carne, che è stata resa digeribile solo con l’utilizzo del fuoco.

Il rifiuto del consumo di carne animale non è una moda di tempi recenti: è presente nelle religioni e filosofie più antiche nelle quali era considerato una forma di elevazione spirituale. Ne abbiamo testimonianza nella pratica dei sacerdoti dell’antico Egitto, nell’orfismo e nella scuola filosofica pitagorica in Grecia tanto che veniva definito “pitagorico” chi si asteneva dal consumo di carne. Platone stesso invitava a nutrirsi di ciò che non è animato, Ovidio dichiarava deplorevole mantenersi in vita con la morte di un altro essere vivente.

Significativi gli interventi a favore del vegetarianesimo di Plutarco, filosofo e scrittore greco vissuto sotto l’impero Romano, nella sua opera De esu carnium: “Se però sei convinto di essere naturalmente predisposto a tale alimentazione, prova anzitutto a uccidere tu stesso l’animale che vuoi mangiare. Ma ammazzalo tu in persona, con le tue mani, senza ricorrere a un coltello, a un bastone o a una scure. Fa’ come i lupi, gli orsi e i leoni, che ammazzano da sé quanto mangiano: uccidi un bue a morsi o un porco con la bocca, oppure dilania un agnello o una lepre, e divorali dopo averli aggrediti mentre sono ancora vivi, come fanno le bestie. Ma se aspetti che il tuo cibo sia morto e se la vita presente in quelle creature ti fa vergognare di goderne la carne, perché continui a mangiare così come si trova, ma si lessa, si arrostisce, si modifica la sua carne per mezzo del fuoco e delle spezie, alterando, trasformando e mitigando con innumerevoli condimenti il sapore del sangue, affinché il senso del gusto, tratto in inganno, possa accettare quanto gli è estraneo.”

Nella Bibbia Dio, dopo la creazione dell’uomo, gli indica quale sarà il suo cibo: “E Dio disse: «Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo» (Genesi, 1:29).

Un genio come Leonardo Da Vinci auspicava l’avvento di “un giorno in cui gli uomini giudicheranno l’uccisione di un animale come essi giudicano oggi quella di un uomo” ed era solito acquistare uccelli in gabbia per poi liberarli.

L’illuminista francese Jean-Jacques Rousseau sosteneva che l’indifferenza dei bambini verso la carne è una prova che il gusto per la carne non è naturale e considerava più crudeli e feroci gli uomini che consumavano carne rispetto agli altri; per Charles Darwin il cibo normale dell’uomo è quello vegetale.

La nostra anatomia e la nostra storia ci dicono quale dovrebbe essere la base della nostra alimentazione e più ce ne allontaniamo più il nostro corpo ne risente in termini di problemi di salute.

Chi consuma esclusivamente alimenti vegetali è protetto il 40% in più dal cancro, dal 20 all’80% dalle malattie cardiovascolari, dal 20 al 60% dall’alta pressione arteriosa e pesa il 10 % in meno rispetto agli onnivori.

Chi ha origini contadine sa bene che il consumo di carne (per necessità) è sempre stato ridotto: la carne si mangiava nei giorni di grande festa e anche in questi giorni ciò che caratterizzava i pasti era la frugalità e la semplicità. Ciò non significava che mancassero tutti i nutrienti di cui abbiamo bisogno. Se riscopriamo ad esempio piatti tipici della cucina regionale italiana come la pasta e fagioli, i risi e bisi, i pisarei e fasò, la pasta alla norma, la pappa al pomodoro, la panzanella, le orecchiette alle cime di rapa, solo per fare qualche esempio, ci rendiamo conto che piatti tipici della cucina italiana che hanno sfamato per decenni i nostri nonni e genitori sono essenzialmente piatti vegani o vegetariani che apportavano carboidrati, proteine, grassi “buoni”, minerali e vitamine.

La dieta mediterranea, di cui questi piatti tipici sono l’espressione, è stata abbandonata dai popoli a cui per lungo tempo ha garantito una vita sana e longeva: le popolazioni mediterranee hanno aggiunto una gran quantità di calorie e grassi di derivazione animale ad una dieta tradizionalmente povera di proteine animali. Le regole di questa dieta furono tratte dall’elenco degli alimenti di un gruppo di italiani che vivevano in Cilento e che godevano di una salute molto più sana dei parenti immigrati negli Stati Uniti, a seguito di uno studio di un medico americano, Ancel Keys. Egli notò che la loro alimentazione si basava sul consumo di frutta e verdura di stagione in abbondanza; pochissima carne e pesce saltuariamente, sostituiti da legumi consumati tutti i giorni; grande varietà di cereali possibilmente integrali.

È stato il miglioramento delle condizioni socioeconomiche della popolazione dopo il secondo dopoguerra a portare all’abbandono in Italia della dieta mediterranea ed in tutto l’Occidente delle diete a prevalenza di cibi vegetali e all’istaurarsi di un’alimentazione ricca di grassi e proteine animali. Che questo cambiamento sia stato troppo repentino e che questa alimentazione sia innaturale per il corpo umano lo indicano le malattie epidemiche che causano il maggior numero di morti ed invalidi nei Paesi Occidentali, tutte irrimediabilmente legate all’alimentazione: obesità, cancro, ipertensione, arteriosclerosi, diabete mellito e osteoporosi sono le nuove “malattie del benessere”.

L’obesità è la diretta conseguenza della sovralimentazione, viene considerata la seconda causa di morte evitabile (dopo il fumo), colpisce un miliardo di persone al mondo (più degli 850 milioni di persone che soffrono di denutrizione) ed è in continuo aumento: l’Italia, inoltre, è ai primi posti nel mondo per quanto riguarda l’obesità infantile.

Il sovrappeso costituisce un fattore di rischio per le malattie vascolari, diabete, ipertensione, ipercolesterolemia, patologie muscolo-scheletriche, tumori (endometrio): le conseguenze dell’obesità sono gravi malattie mortali ed invalidanti.

Studi oncologici hanno rilevato che il tessuto adiposo è fonte di ormoni che influenzano alcuni tipi di tumore come quello dell’endometrio, e di macrofagi, cellule del sistema immunitario sfruttate dalle cellule tumorali per la propria proliferazione e legate all’insorgenza del diabete di tipo 2.

La soluzione contro l’obesità è adottare una dieta a base di cibi naturali vegetali (caratterizzati da alto potere saziante, elevata densità nutrizionale ma bassa densità calorica) abbinata ad un appropriato esercizio fisico per far sì che ci sia equilibrio tra le calorie consumate e quelle introdotte.

Lo Studio Cina (i cui risultati sono stati pubblicati in The China Study dal biochimico e nutrizionista T.Colin Campbell) prendendo in esame la dieta dei cinesi delle regioni rurali, ha evidenziato che i vegetariani, pur consumando maggiori quantità di calorie dei consumatori di carne, sono comunque più magri. Nello stesso studio è stato rilevato che chi segue un’alimentazione vegetale è fisicamente più attivo edè dotato di un metabolismo leggermente più alto a riposo grazie al quale viene bruciata una quantità superiore di calorie anziché depositarle sotto forma di grasso corporeo.

È dato certo ormai che ben un terzo dei tumori dipende da cattive abitudini alimentari, l’influenza dell’alimentazione sale al 75% per il tumore della prostata e del colon. Il solo fattore genetico non sembra più in grado di spiegare l’insorgenza del cancro: l’origine di ogni malattia è genetica ma i fattori ambientali quali la dieta e l’inquinamento ambientale sembrano essere determinanti nella latenza o nell’espressione genica. Molti studi hanno infatti dimostrato che quando si emigra si assume il rischio di malattia del paese di accoglienza: l’incidenza del tumore alla mammella, ad esempio, risulta elevata nei Paesi occidentali rispetto all’area asiatica, ma aumenta quando le donne orientali migrano in Occidente; i giapponesi emigrati negli Stati Uniti da 3 generazioni presentano il cancro al colon nella stessa percentuale degli americani mentre il tasso della stessa patologia in Giappone è restata la stessa dal momento della loro emigrazione ( ¼ rispetto a quella americana).

Gli elementi che favoriscono la comparsa del cancro sembrano essere un eccesso di grassi saturi, di proteine animali ed una carenza delle sostanze protettive, come fitocomposti e fibre, che appartengono tutte al mondo vegetale.

La dieta sembra influire sia sulla comparsa che sullo sviluppo del cancro: un’alimentazione ricca di proteine animali, grassi e cereali raffinati sembra aumentare notevolmente il rischio di ricomparsa e di morte nei pazienti sottoposti a chemioterapia per tumore al colon, al contrario nelle donne affette da tumore al seno allo stadio iniziale, una dieta a base di frutta e verdura e carente di proteine animali è stata correlata ad una riduzione del rischio di morte del 43%; sappiamo che una dieta ricca di carne produce un eccesso di ormoni sessuali che, causando un anticipo nella maturazione sessuale dei bambini ed un ritardo della menopausa, costituisce un fattore di rischio di tumore al seno nelle donne; infine l’eccessivo consumo di grassi (presenti soprattutto nei prodotti di origine animale) è associato al tumore alla mammella nelle donne e al carcinoma del colon in entrambi i sessi.

Se gli alimenti di origine animale costituiscono o sono strettamente legati a fattori di rischio tumorali, appartengono tutti al regno vegetale gli alimenti che ne riducono l’insorgenza: i vegetali non amidacei (pomodori, fagiolini, cipolle, finocchio, sedano, insalate….) sono utili nella prevenzione dei tumori alla bocca-faringe, stomaco e esofago; i carotenoidi contenuti nella frutta e verdura di colore arancione e negli ortaggi di colore verde scuro aiutano nel prevenire i tumori di bocca, faringe, laringe e polmone; il selenio previene il tumore alla prostata; il licopene presente nel pomodoro (ed in minor quantità nelle arance rosse, pompelmo rosa, carote, albicocche, angurie) difende dal cancro alla prostata; le crucifere, contenendo l’indolo-3-carbinolo proteggono dal cancro al seno; la catechina delle foglie del tè aiuta a prevenire il cancro alla pelle, seno, prostata, colon e polmone; i fitoestrogeni presenti in frutta, noci, mandorle, legumi e soia svolgono un ruolo di regolazione delle influenze ormonali e per  questo sembrano avere un’azione protettiva nei confronti del tumore alla mammella.

Abbiamo quindi un grande strumento di difesa dal cancro: una sana alimentazione a base di prodotti vegetali naturali.

Per la scelta di un’alimentazione vegana risulta fondamentale la motivazione etica.

Cosa ci dice la scelta alimentare vegana dell’etica di una persona? Che rispetta la vita.

Più della metà degli Italiani (55,3 % a inizio 2013 con un aumento rispetto all’anno precedente di 13,6 punti) hanno in casa un animale domestico. Gli animali di cui ci cibiamo non hanno niente di diverso dai compagni di vita che cresciamo nelle nostre case: come loro (e come noi) sono “esseri senzienti”, sono dotati di un alto livello di consapevolezza, intelligenza e sensibilità, provano sentimenti quali dolore, sofferenza e felicità. Avendo da tempo scoperto di avere in comune buona parte del nostro patrimonio genetico con gli animali (condividiamo il 97 % del genoma con gli oranghi, quasi il 93 % con i topi di campagna) risulta assurdo e presuntuoso ritenerci l’unico animale dotato di sensibilità e coscienza.

Partendo dalla consapevolezza che non c’è alcuna differenza tra la sofferenza provata da un cucciolo di cane e uno di qualunque altra specie animale, è necessario far conoscere la violenza ed il dolore che si cela dietro il consumo di prodotti animali. Queste torture avvengono in allevamenti intensivi e macelli lontani e ben nascosti dagli occhi dei consumatori in modo che il prodotto finito che ritroviamo al supermercato non dia più la percezione di appartenere al cadavere di un essere vivente. I bambini non si accorgono più che gli animali che ispirano loro tanta tenerezza sono poi quelli che si ritrovano nel piatto: sarebbero così appetibili se ricominciassimo a chiamare il prosciutto o lo spezzatino con il loro nome? Se li definissimo per quello che sono cioè parti del maialino del loro cartone animato preferito o del vitellino che vogliono accarezzare?

Negli allevamenti gli animali smettono di essere considerati esseri viventi e diventano merci che devono essere lavorati e trasformati: che lo scopo sia produrre latte, uova o carne l’esistenza degli animali allevati culmina senza eccezioni con la morte violenta.

Il processo di produzione e trasformazione deve essere il più economico possibile in quanto i consumatori, che in questo processo di sfruttamento e violenza hanno una parte assolutamente attiva rappresentandone la domanda, pretendono un prodotto in quantità sempre crescente a prezzi sempre più bassi: siamo conseguentemente giunti alle aberrazioni della produzione di massa e dell’allevamento intensivo.

Allo stesso modo non sono accettabili neppure gli allevamenti in cui vengono seguite le cosiddette regole del “benessere animale”, contraddizioni in termini in quanto la concezione dell’animale come pura merce e l’uccisione finale sono comuni ed ugualmente condannabili.

La pratica di allevamento intensivo è l’unica che riesce a fare fronte alla domanda di una popolazione in continua crescita che ogni anno consuma sempre più carne: non c’è abbastanza spazio per allevare tutti gli animali di cui c’è richiesta quindi un numero elevatissimo viene allevato in uno spazio molto ridotto e per risparmiare sui costi diminuisce la manodopera utilizzata e conseguentemente le cure prestate agli animali.

Il numero maggiore di animali uccisi è rappresentato da polli e galline ma la filiera delle galline ovaiole e quella dei polli da carne prendono due strade diverse: le femmine che nascono dalle incubatrici non diventano galline ovaiole e i maschi polli da carne come si potrebbe pensare.

I polli da carne vengono allevati fin da pulcini in capannoni che una volta cresciuti non avranno le dimensioni adeguate per contenerli tutti (impiegano circa 30 giorni, naturalmente ne impiegherebbero 100): non avranno più spazio sufficiente per muoversi e per la crescita troppo rapida saranno affetti da problemi articolari. Il luogo in cui si trovano non viene mai pulito, l’aria è resa irrespirabile dalle esalazioni dei loro escrementi, causando negli animali patologie respiratorie, problemi agli occhi e spesso la morte. La poca manodopera che se ne occupa raccoglie solo saltuariamente i cadaveri di chi non ce l’ha fatta che restano quindi diverso tempo a contatto con i sopravvissuti. Questi a soli due mesi di vita hanno raggiunto innaturalmente le dimensioni richieste e vengono stipati violentemente in cassette ammassate sui camion che li portano al macello dove, appesi a testa in giù, vengono fatti passare attraverso una macchina che taglia loro la gola.

Più lunga è l’agonia delle galline ovaiole.

Le galline ovaiole nascono in immense incubatrici ma solo la metà dei pulcini sono femmine: l’altra metà, i maschi, che non produrranno uova e che non potranno diventare polli da carne perché di una razza a crescita molto più lenta rispetto a questi ultimi, rappresentano per il produttore di uova solo degli scarti che non conviene allevare. Posizionati su un nastro trasportatore vengono smistati dalle femmine e tritati vivi o soffocati in sacchi di plastica (lo smaltimento di questi pulcini salì alla ribalta delle cronache all’indomani dello scandalo della “mucca pazza” quando venne vietato di utilizzarli per la produzione di mangimi per animali). Alle femmine viene invece tagliata la punta del becco (dotata di terminazioni nervose quindi sensibile al dolore) per evitare che una volta stipate in gabbie piccolissime e sovraffollate diventino aggressive a causa dello stress subito e si feriscano. Nei due anni di vita che restano loro produrranno circa 250 uova l’anno: dieci volte il numero che produrrebbero naturalmente se ci ricordassimo che sono uccelli come tutti gli altri e che depongono le uova solo in determinati periodi dell’anno per la loro riproduzione. Dovendo produrre un numero così alto di uova e non essendo mai esposte alla luce solare esauriscono le riserve di calcio andando incontro a pesanti dolori articolari che portano spesso alla morte di sete o fame a causa dell’immobilità.

Le galline ovaiole allevate a terra non vivono all’aria aperta ma in capannoni e dopo uno, massimo due anni, come le cugine allevate in gabbia, vengono portate al macello per diventare carne da bolliti.

Questo è uno dei motivi per cui chi è vegano sceglie di non consumare uova: la loro produzione comporta l’uccisione di animali allo stesso modo del consumo di carne.

Anche quelle provenienti dai piccoli allevamenti o dai contadini di fiducia provengono da galline che finita la naturale produzione di uova non verranno sicuramente lasciate morire di vecchiaia.

Lo stesso accade per i bovini, che siano razze allevate per la produzione di carne o per quella di latte. Se si tratta di razze da carne la loro crescita avverrà in stalle strette e in tempi innaturali fino a dimensioni esagerate per le loro stesse ossa che non le sosterranno una volta adulte.

Ci sono poi le varietà selezionate per la produzione di latte. Siamo così abituati ad avere il latte fresco ogni mattina sulle nostre tavole che diamo erroneamente per scontato che le mucche producano latte sempre: come tutti i mammiferi (e come per noi donne) la mucca per produrre latte deve partorire e una volta finito il periodo di produzione, perché questa ricominci, è necessaria un’altra gravidanza.

Le mucche da latte vengono quindi ingravidate, solitamente artificialmente, e a poche ore o giorni dal parto vengono divise dal figlio, creando in loro una naturale disperazione data dal negato istinto materno ed impedendo la creazione di qualunque rapporto con il figlio che si trova spaventato e solo.

Se femmina prenderà presto il posto della madre e verrà fatta partorire una volta l’anno per permettere la produzione di 10 volte la quantità di latte che produrrebbe in natura per suo figlio e dopo 3 anni verrà macellata. Se maschio dovrà seguire un’alimentazione innaturale povera di ferro in modo che la sua carne rimanga bianca, quindi anemica, e possa essere venduta come carne bianca di vitello. A soli sei mesi di vita verrà mandato al macello legato su camion senza bere né mangiare, a qualsiasi temperatura, dove verrà prima stordito poi sgozzato.

Come i pulcini sono scarti della produzione di uova, allo stesso modo i bufalotti sono scarti del latte di bufala, utilizzato per produrre la famosa mozzarella: essi non sono allevati seppur per breve tempo come i vitelli, ma non esistendo un mercato per la loro carne, vengono spesso abbandonati o lasciati morire di fame nelle stalle.

Essere vegetariani quindi non basta per evitare l’uccisione di animali: solo eliminando il consumo di latte e derivati e uova si può raggiungere questo risultato.

Sorte migliore non capita ai maiali, allevati per la produzione di carne: le scrofe detenute in gabbie grandi appena quanto il loro corpo e tenute per tutto il corso della loro breve vita in posizione sdraiata, vengono inseminate, partoriscono e allattano senza poter accudire i loro piccoli, le sbarre sono sempre presenti a dividerli e causano alle scrofe piaghe dolorosissime mai curate. Non potendosi muovere naturalmente molte schiacciano non intenzionalmente i loro figli e se questi non sono in grado di raggiungerle per l’allattamento, agonizzano fino alla morte.

È innegabile che tutte le sofferenze che questi animali provano in vita vengano trasmesse energeticamente e chimicamente nei piatti di chi le consuma: anche nella cacciagione uccisa da cacciatori, che la difendono come sana perché ancora selvatica e naturale, sono presenti enormi quantità di tossine da stress dovute alle modalità di cattura e uccisione, spesso preceduta da inseguimenti di ore.

La conoscenza delle condizioni di allevamento e delle uccisioni che necessariamente stanno dietro la produzione di uova e latticini è necessaria come primo passo verso la libertà di scelta e, ci auguriamo, verso il cambiamento: passando ad un’alimentazione vegetariana si salvano già circa 20 animali l’anno, eliminando anche uova e latticini si salvano anche tutti i pulcini, vitelli e bufalini considerati “scarti” di produzione.

Eliminando dalla dieta i prodotti di derivazione animale, il regime alimentare vegano rappresenta una scelta ecologica il linea con la necessità di seguire uno “sviluppo sostenibile”: come sancito dalla Comunità Europea, lo sviluppo socio economico non deve recare danno all’ambiente e alle risorse naturali, necessarie per la prosecuzione dell’attività umana e lo sviluppo delle generazioni future.

Per la concretizzazione di uno sviluppo sostenibile diventa di fondamentale importanza correggere il comportamento ed il consumo del singolo: solo in questo modo si otterrà un mutamento dell’impatto ambientale dell’intera collettività. Il cicli di produzione, poi, devono essere pianificati (dalla produzione all’utilizzazione) in modo da ottimizzare la produzione ed il consumo di energia, evitando il depauperamento delle risorse naturali, favorendo il riciclo e la riutilizzazione e diminuendo la produzione di rifiuti.

A livello governativo ONU e Comunità Europea hanno sancito da diversi anni queste necessità ma le politiche governative non muteranno se non cambieranno le richieste dei consumatori che devono per questo essere informati sulle loro reali responsabilità: è nata a questo scopo l’ecologia della nutrizione.

Recentissimi studi di questa disciplina hanno preso in considerazione diversi regimi alimentari per analizzarne la sostenibilità. I ricercatori sono concordi nell’affermare che a parità di tipologia di produzione (intensivo o non intensivo) maggiore è il consumo di carne e maggiore risulta l’impatto ambientale: per aumentare di 1 kg ad un vitello servono 13 kg di mangime, 11 kg ad un vitellone, 24 kg ad un agnello.

La produzione di carne di manzo risulta essere quella con il peggior rapporto tra apporto nutrizionale e impatto ambientale: richiede 28 volte più terra, 11 volte più acqua, 5 volte più emissioni di gas serra e 6 volte più fertilizzanti rispetto alla produzione di altri carni, uova e latticini. Questi a loro volta necessitano da due a sei volte la quantità di risorse necessarie a produrre la stessa quantità di calorie di grano, riso o patate.

I bovini arrivano a consumare fino a 790 kg di proteine vegetali per produrne meno di 50 kg, gli animali infatti trasformano in carne adatta all’alimentazione solo circa il 10% del cibo che ricevono.

I metodi di produzione chimico-intensivi, a parità di dieta (onnivora o vegana) hanno un impatto ambientale maggiore rispetto ai metodi biologici: nell’agricoltura biologica devono essere utilizzati solo preparati vegetali, minerali ed animali non tossici per la lotta ai parassiti delle piante, nella trasformazione delle materie prime non possono essere utilizzati conservanti o coloranti; i terreni utilizzati, poi, non devono essere stati trattati con prodotti chimici da almeno due anni e devono essere separati da quelli con produzione non biologica; tutte le fasi della produzione e trasformazione fino al confezionamento sono sottoposti a controlli  speciali. La produttività dell’agricoltura e dell’allevamento biologici non sono però in grado di soddisfare la domanda attuale in Italia: gli allevamenti intensivi forniscono il 43% del quantitativo mondiale di carne, dato che arriva oltre il 50% se si considera solo la carne suina ed il pollame.

Dagli anni ’50-’60 la richiesta di carne globale è fortemente aumentata e conseguentemente il numero di animali allevati che dal 1961 è aumentato addirittura del 60 %: da 3,1 a 4,9 miliardi (bovini, suini e ovini), da 4,2 a 15,7 miliardi (volatili).

I consumi di materie prime e risorse dovuti all’alimentazione hanno un grande impatto sociale: solo oggi moriranno circa 24.000 mila persone a causa di denutrizione, malnutrizione e malattie ad essa collegate, più di un miliardo di persone non ha accesso all’acqua potabile, circa 917 milioni di persone non ha abbastanza cibo ed in Occidente oltre un miliardo di individui è sovralimentata e questo miliardo è costituito da persone carnivore.

Non c’è da stupirsi di questi dati se si vanno ad esaminare quelli della produzione agricola mondiale: il 77 % dei cereali prodotti in Europa viene utilizzato per i mangimi animali, negli Stati Uniti si arriva all’87%; il 90 % della soia prodotta a livello mondiale e la metà dei cereali sono destinati al consumo animale anziché umano.

Questa situazione sta addirittura peggiorando per fare fronte alla richiesta in aumento di prodotti animali da parte dei paesi in via di sviluppo nei quali il consumo di carne è considerato un indicatore di benessere sociale, uno status symbol.

Il 4% dell’impatto totale dell’alimentazione sull’ambiente è data dalle conseguenze delle deiezioni animali sull’ecosistema, comparabile a quelle di fertilizzanti e pesticidi chimici: ogni anno in Italia 19 milioni di tonnellate di deiezioni inutilizzabili come fertilizzante vengono smaltite tramite spargimento sui terreni, causando inquinamento da sostanze azotate e conseguente inquinamento delle falde acquifere e eutrofizzazione dei mari.

Il 5-13% dell’impatto totale è dovuto al consumo del territorio: l’Europa è in grado di fornire abbastanza vegetali per nutrire tutti i suoi abitanti, ma riesce a produrre solo il 20% delle proteine per alimentare i suoi animali d’allevamento, il restante 80% viene importato dai paesi del Sud del mondo.

Per ovviare a questa mancanza di spazio e all’aumento della richiesta si assiste alla distruzione di milioni di ettari di foresta pluviale (17 milioni di ettari ogni anno) per fare spazio ai pascoli: l’88% dei terreni disboscati nella foresta Amazzonica è stato destinato a questo uso, gli alberi abbattuti vengono bruciati sul posto in quanto non è conveniente commercializzarli. Il suolo di questi pascoli, non adatti a queste colture, diventano presto sterili: lo stesso avviene in Africa dove la maggior parte dei terreni impiegati per il pascolo dell’allevamento estensivo è in via di desertificazione.

Se gli alimenti di origine vegetale arrivano quasi direttamente sulle nostre tavole, quelli di origine animale devono essere trasformati, lavorati, prodotti e trasportati: il 15-18% dell’impatto totale è infatti rappresentato dalle conseguenze della respirazione di composti chimici inorganici, il 20-26% dal consumo di combustibili fossili (per ogni caloria di carne bovina vengono utilizzate 78 calorie di combustibile fossile, 36 per una di latte contro le 2 necessarie per una caloria di soia).

Ma il fattore che ha l’impatto più elevato è il consumo di acqua (41-46% dell’impatto totale): la zootecnia e l’agricoltura consuma il 70% dell’acqua utilizzata sul pianeta. È stato calcolato che tutta l’acqua consumata da una famiglia americana media in un anno basta per produrre solo 5 kg di carne bovina: considerando che la media di consumo giornaliero di carne è pari a 100 gr al giorno (per alcune popolazioni questo consumo va moltiplicato per 10) questo quantitativo di carne non basterà ad una famiglia neanche per una settimana. Il risparmio di acqua che cerchiamo di ottenere ogni giorno nella vita quotidiana ha ben poco di ecologico se confrontato a quanto potremmo risparmiare cambiando la nostra alimentazione. La catena produttiva necessaria ad ottenere 1 kg di carne richiede circa 15.000 litri di acqua, contro i 1000 litri necessari per produrre la stessa quantità di cereali.

Dall’analisi di questi dati è emerso che la dieta onnivora è ambientalmente insostenibile mentre la dieta vegana, che sia ottenuta con metodi produttivi intensivi o biologici, è in grado di far fronte alle necessità presenti senza compromettere il soddisfacimento di quelle delle future generazioni, rispettando i limiti delle capacità di carico degli ecosistemi dai quali dipende. Un’alimentazione vegana porta ad un risparmio di risorse del 75% rispetto ad un’alimentazione vegetariana (che comprenda ancora latte e uova); se si mette a confronto l’alimentazione vegana con quella onnivora il risparmio arriva addirittura quasi al 90%.

Albert Einstein dichiarò che “niente aumenterà le possibilità di sopravvivenza sulla terra quanto l’evoluzione verso un’alimentazione vegetariana”: se le popolazioni dei Paesi emergenti, in continua crescita, dovessero continuare a considerare il consumo di carne un segno di ricchezza e arrivassero a richiederne la quantità consumata in Occidente nessun ecosistema potrebbe sopravvivere. L’unica possibilità che ci resta per evitare questo processo è diminuire o meglio eliminare il consumo di carne nei Paesi occidentali e convincere i Paesi orientali a mantenere la loro alimentazione a base prevalentemente vegetale.

Sono molte le ragioni che ci spingono verso il regime alimentare vegano e se è ancora il timore della perdita di sapori piacevoli che ci frena non dobbiamo spaventarci: il nostro cervello impiega circa 3 settimane a cancellare il ricordo di vecchi sapori e a non farceli più desiderare. Spesso fino a quando non si sta male fisicamente è il gusto a dettare le nostre scelte alimentari: non aspettiamo che sia il corpo con la malattia a farci capire che stiamo sbagliando.

Passando da una dieta onnivora ad una vegana vi accorgerete che il vostro palato si pulirà, soprattutto dal sale e dagli zuccheri raffinati, e le vostre papille gustative impareranno a conoscere i sapori autentici richiedendo sempre più semplicità nei vostri piatti. Vi libererete inoltre della paura delle calorie in quanto i cibi vegetali sono meno calorici ma, di contro, potrete mangiarne quantità maggiori.

E se non vi abbiamo ancora convinto ci giochiamo l’ultima carta: sperimentate voi stessi, e osservate i risultati. Abbiamo piena fiducia che non ve ne pentirete.

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